Laura Torrisi: «Quando ho capito di essere la peggior nemica di me stessa»

Laura Torrisi

La richiesta di scrivere un libro, l’ennesima, è arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma a formularla non è stata una casa editrice. «Sara Gazzini, mia amica storia, mia ha chiesto di farlo. In pandemia, con l’impossibilità di vederci di persona, si è trovata a rileggere vecchie conversazioni di Whatsapp, e lì, tra le parole digitali, ha scoperto una profondità che mi ha chiesto di condividere», racconta Laura Torrisi, ora in libreria con P.S. Scrivimi sempre, storia – assolutamente autobiografica – di uno scambio diventato universale.

Il libro, che l’attrice ha accettato di scrivere non senza riserve, ripercorre in forma epistolare lo scambio, «reale e spontaneo», che Torrisi e Sara Gazzini hanno avuto nei giorni di lockdown, «quando la pandemia, forzandoci in casa, ha costretto noi tutti a guardare nell’abisso».

Perché ha accettato di rendere pubbliche quelle che avrebbe dovuto essere conversazioni private?
«Ammetto che ho avuto qualche dubbio quando Sara, già autrice di tre libri, mi ha chiesto di scrivere insieme questo mio primo. Più volte negli anni mi è stato proposto di mettere su carta la mia vita, ma ho sempre rifiutato. Perché mai, mi chiedevo, qualcuno dovrebbe essere incuriosito da quel che mi accade? E perché scrivere un’autobiografia adesso? Ho sempre pensato fosse una cosa propria dell’ultima fase dell’esistenza».

E quindi cosa le ha fatto cambiare idea?
«La consapevolezza che, scrivendolo, avrei avuto l’occasione di condividere esperienze in cui altre persone avrebbero potuto ritrovarsi. È una cosa, questa, che ho cominciato a fare sui social, dove alterno alla pubblicazione di contenuti ordinari momenti di riflessione. La forma epistolare, poi, trovo sia molto bella. È antica, indubbiamente, ma diventa innovativa se contestualizzata in ambito moderno».

Infatti, non sono lettere le vostre, ma email.
«E ogni tanto hanno portato con sé fasi difficili. Io ho sempre avuto tanti diari, ma nello scrivere questo libro ho sperimentato il proverbiale blocco dello scrittore. Momenti di stasi, alternati a momenti di piena, in cui le parole scorrevano da sé».

Nelle primissime pagine, c’è già tutto: sua figlia, la Sicilia, l’endometriosi. C’è qualcosa che non è riuscita ad affrontare?
«In modo molto genuino, credo di aver parlato di tutto ciò che mi sta a cuore. Si pensa sempre che dietro un personaggio si celi un mondo brillante, pieno di luce, e si finisce per perdere di vista la realtà. Dietro un personaggio c’è una persona. Noi non siamo immuni alle cose brutte della vita, ivi compresa la malattia. Questo ci ho tenuto a dirlo».

L’endometriosi, poi, l’aveva già raccontata via social.
«In verità, avevo provato a raccontarla anche dieci anni fa. allora, però, il racconto era stato strumentalizzato dai media, che ne avevano fatto un uso improprio. Per parlare di depressione e persone che non possono avere figli, invece, ci vuole tatto. Sono riuscita a farlo quando, online, mi è arrivato il calore di persone che potevano capire, sentire quello che stavo, che sto e che ho vissuto».

Non trova che sui social, oggi, sia più facile parlare di certi argomenti, che ci sia più onestà di un tempo?
«L’endometriosi è sempre una malattia di cui si parla troppo poco, ma credo che oggi, online, ci sia molta più onestà. Non saprei dire da dove venga, ma la pandemia ha giocato un ruolo fondamentale nell’incentivarla. È come se le persone avessero capito solo attraverso l’isolamento di potersi aprire, come se avessero riscoperto il potere della condivisione e la voglia di aiutarsi l’una con l’altra, attutendo il proprio senso di solitudine attraverso un’esperienza comune. Mi piace molto tutto questo, e non solo in relazione alla malattia».

I social, però, sembrano non potersi liberare di una certa componente tossica. Come si relaziona con «giudici», haters, tuttologi e vari?
«Con indifferenza. Ho imparato a non dare peso a certi commenti, soprattutto perché credo che quel che si scrive riveli di più sull’autore che sul destinatario del post».

In P.S. Scrivimi sempre, parla di autostima, cadute e fallimenti. Com’è arrivata a maturare questa consapevolezza?
«In parte, proprio attraverso l mie cadute. Devo loro moltissimo: mi hanno mostrato lati di me, imperfezioni, che con il tempo ho imparato ad amare. Le cicatrici segnano, ma insegnano e non focalizzarci solo sul dolore, cercando invece di educare l’occhio perché impari a cogliere il significato nascosto di quel che ci accade è stato fondamentale. Difficile, perché da donna cresciuta in una famiglia siciliana ho il dramma dentro, ma fondamentale».

La psicoterapia l’ha aiutata?
«Assolutamente sì. Psicoterapia e meditazione. Ho chiesto aiuto quando mi è stata diagnosticata l’endometriosi, perché la malattia può indurre la depressione. A ventotto anni, mi sono sentita dire che forse non avrei mai potuto avere figli. Non sono arrivata a sviluppare una depressione, ma da donna che è sempre stata convinta di voler essere madre, anche da sola, è stato un colpo».

Come aveva immaginato un’eventualità maternità da single?
«Non ero arrivata a formulare un piano, sapevo solo che avrei voluto un figlio. Nel libro, non ho parlato di adozione, ma questo per me resta un tema caldo. Vorrei che in Italia ci fosse la possibilità di salvare i bambini orfani. Hanno bisogno di amore e lo stato sentimentale di una persona non preclude la sua capacità di amare. Io sono separata, ma so crescere mia figlia».

Di Martina (nata nel 2010, dalla relazione con Leonardo Pieraccioni, ndr) parla sin dalle primissime pagine. Ha chiesto al suo ex cosa ne pensasse?
«No, è stata una sorpresa per lui questo libro. Lo è stata per tutti, anche per i miei genitori. Non ho detto a nessuno che lo stavo scrivendo. So che Leonardo dovrebbe averne comprata una copia, ma ancora non so cosa ne pensi».

E sua figlia?
«Lo sta leggendo. Mi inorgoglisce vederla prendere il libro ogni sera, andare a letto e leggere due, tre capitoli. Lo legge con la stessa avidità con cui potrebbe leggere Harry Potter e mi riempie di domande».

Difficile pensare capisca tutto.
«Non lo fa, e ne è consapevole. Mi ha fatto tante domande sulla malattia, su cose che ancora non sarebbe in grado di comprendere appieno. Ad alcune, ho dato risposte parziali, non supercazzole né bugie. Solo, ho cercato di raccontarle la realtà attraverso metafore ed esempi alla sua portata. È giusto che Martina sappia, non può vivere sotto una campana di vetro, perché la vita è altro. Al contempo, però, cerco di stare attenta a far sì che non veda solo nero».

Alla fine, scrivere e condividere, dunque, si è rivelato terapeutico anche per lei…
«Mi sono ritrovata. Tempo fa, con la psicoterapia e la meditazione, ho intrapreso un percorso di consapevolezza personale e oggi ho trovato la forza per tradurlo in realtà. Non ho paura di mettermi a nudo né di mostrare ad altri la mia fragilità. Mi rendo che questa mia capacità di essere me stessa, sempre, strida a tratti con un mondo che ci vorrebbe di ferro, sorridenti e splendenti. Esisterà sempre una parte di pubblico pronta ad etichettarmi, a giudicarmi. Solo che adesso quel giudizio non lo patisco più. Quando ho capito di essere io la peggior nemica di me stessa, ho imparato a lasciare andare».

Riesce davvero ad essere così zen?
«So che parlo come un guru (ride, ndr), ma io la psicanalisi la renderei obbligatoria, come i vaccini: dieci sedute per ogni individuo, minimo».

Qual è stato, malattia a parte, il momento più difficile da superare?
«Da ragazzina, mi sono sentita molto inadeguata. Prima ancora di diventare famosa, prima del Grande Fratello e del cinema. Ci ho messo tanto a liberarmi dalle etichette. Quando ero un’adolescente, la più carina della scuola, la mia bellezza veniva letta come una colpa, e portava con sé dell’altro: giudizi negativi, per lo più. Dopo il film (Una moglie bellissima, ndr), questi stereotipi sono esplosi, e con loro il mio successo. Ho dovuto imparare a gestire tante cose. Il successo è una lavatrice incredibile: se ti lasci centrifugare, soccombi».

Le è stato utile avere a fianco Pieraccioni, all’epoca?
«Sì. C’erano tante cose in cui eravamo dissonanti, ma in questa eravamo molto simili. Lui è sempre stato un paradigma di normalità, ed entrambi cercavamo di condurre una vita ordinaria. Non abbiamo mai sgomitato per una copertina, non abbiamo mai fatto a gara per parlare di noi».

Perché nel libro ha scelto di accompagnare ogni mail con il titolo di una canzone da ascoltare?
«Perché da ragazzetta mi sarebbe piaciuto fare la cantante. La musica ha una capacità rievocativa. A me e Sara sembrava bello poter trovare nelle canzoni richiami alla nostra realtà, un senso di universalità che va oltre noi, oltre il tale artista per unire chiunque viva qualcosa di simile».

Laura Torrisi: «Quando ho capito di essere la peggior nemica di me stessa»ultima modifica: 2021-11-02T06:30:31+01:00da save1098
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